Sta per chiudersi la mostra "Il peso delle parole" dell'artista francese Elfe Imako, inaugurata l' 8 aprile al Giardino di Arte Libera.
Di solito si scrive di una mostra d'arte in occasione della sua apertura e non della sua chiusura. Stavolta il vostro cronista fa eccezione alla regola: innanzitutto per non avere il dono dell'ubiquità, sia pur virtuale, necessaria a seguire in tempo utile i tanti eventi culturali che si susseguono in SL (con buona pace di chi già ne ha decretato la morte), e poi in considerazione del fatto che l'opera d'arte non "finisce" insieme alla sua esposizione, ma continua a vivere nella mente e nel cuore di chi ne ha recepito il messaggio, in un ciclo vitale illimitato simile a quello delle stagioni, della natura e della vita. Questo è ancora più vero nel caso di Arte Libera, teatro di allestimenti sempre interessanti e qualitativamente rilevanti.
Con buona disposizione d'animo mi sono recato così a visitare la mostra di Elfe Imako; guida d'eccezione nella visita è stata Simba Schumann, l'attiva gallerista ed owner della land, che mi ha illustrato con perizia e passione le opere esposte, tracciandomi il profilo artistico dell'autrice.
La prima cosa che colpisce il visitatore è l'omogeneità strutturale delle sculture, fatte tutte o quasi dello stesso materiale (legno? pietra? entrambi o nessuno di essi?) di consistenza ambigua ed inquietante fisicità.
Aggirandosi tra di esse, sembra di essere capitati nel mezzo di una foresta fossile pietrificata dallo scorrere dei secoli e resa immutabile come le angosce dell'uomo e le sue disperate ansie di riscatto. Qualcosa di arcaico traspare da una texture sempre uguale a se stessa che copre ogni cosa, così come la patina del tempo offusca i ricordi e spegne le attese, mentre simboli e segnali provenienti dalle opere suggeriscono apocalittiche visioni post-moderne ed amare considerazioni antropologiche, che spaziano dalla denuncia sociale al disagio esitenziale, dalle difficoltà comunicative alla perdita di speranza in un futuro migliore. E l'ambientazione della mostra, collocata nelle suggestioni goticheggianti del Giardino di Arte Libera, ne esalta l'impatto emotivo.
Di solito si scrive di una mostra d'arte in occasione della sua apertura e non della sua chiusura. Stavolta il vostro cronista fa eccezione alla regola: innanzitutto per non avere il dono dell'ubiquità, sia pur virtuale, necessaria a seguire in tempo utile i tanti eventi culturali che si susseguono in SL (con buona pace di chi già ne ha decretato la morte), e poi in considerazione del fatto che l'opera d'arte non "finisce" insieme alla sua esposizione, ma continua a vivere nella mente e nel cuore di chi ne ha recepito il messaggio, in un ciclo vitale illimitato simile a quello delle stagioni, della natura e della vita. Questo è ancora più vero nel caso di Arte Libera, teatro di allestimenti sempre interessanti e qualitativamente rilevanti.
Con buona disposizione d'animo mi sono recato così a visitare la mostra di Elfe Imako; guida d'eccezione nella visita è stata Simba Schumann, l'attiva gallerista ed owner della land, che mi ha illustrato con perizia e passione le opere esposte, tracciandomi il profilo artistico dell'autrice.
La prima cosa che colpisce il visitatore è l'omogeneità strutturale delle sculture, fatte tutte o quasi dello stesso materiale (legno? pietra? entrambi o nessuno di essi?) di consistenza ambigua ed inquietante fisicità.
Aggirandosi tra di esse, sembra di essere capitati nel mezzo di una foresta fossile pietrificata dallo scorrere dei secoli e resa immutabile come le angosce dell'uomo e le sue disperate ansie di riscatto. Qualcosa di arcaico traspare da una texture sempre uguale a se stessa che copre ogni cosa, così come la patina del tempo offusca i ricordi e spegne le attese, mentre simboli e segnali provenienti dalle opere suggeriscono apocalittiche visioni post-moderne ed amare considerazioni antropologiche, che spaziano dalla denuncia sociale al disagio esitenziale, dalle difficoltà comunicative alla perdita di speranza in un futuro migliore. E l'ambientazione della mostra, collocata nelle suggestioni goticheggianti del Giardino di Arte Libera, ne esalta l'impatto emotivo.
Esaminiamo brevemente qualche opera.
"Fly me" rappresenta un uccello in gabbia, metafora di chi non può liberamente esprimersi, pena l'emarginazione nella società.
"Build treason" è una costruzione che dichiara esplicitamente di non esserlo, metafora della crisi di identità che caratterizza l'uomo di oggi e le sue produzioni artistiche, troppo spesso autoreferenziali e prive di autentici valori formali e sostanziali.
"Partichions de chiasses musicales" riserva una sorpresa all'attento osservatore: se si guarda verso l'alto si vede una sorta di partitura musicale, le cui note sono rappresentate da uccelli posati sui fili di un traliccio. Il messaggio è forte e chiaro: perché di tanto in tanto non guardiamo in alto invece di rivolgere lo sguardo sempre verso terra, soggiogati dalla banalità del quotidiano?
"Hungry Earth" riguarda il destino della Terra, affamata ed avida di nutrimento, materiale e morale. Non ci resta che nutrirla, ognuno nel suo piccolo, con le parole e le azioni, per non vederla morire.
"Ferrycorn with light" è una scultura che - a detta della stessa autrice - generalmente spaventa. Ma ci si può sedere sopra esorcizzando le paure e cavalcando sogni di pace. Forse la lanterna serve proprio per illuminare il cammino.
"Hooked on the moon" è ancora un'opera che invita a sognare sogni impossibili per fuggire dal mondo che conosciamo.
"When others dream" denuncia la sopraffazione e la violenza che regnano ancora nella società.
"Tree of life" con i suoi feti racchiusi in teche pseudo-organiche simboleggia l'anelito della vita, proveniente da un ceppo comune a tutte le sue forme e che attende di aprirsi verso la libertà
"The weight of world", chiaramente ispirata alle "strutture impossibili" di Escher, è forse l'opera più rappresentativa della mostra, a cui non per caso ha dato il nome. E' un paradosso concettuale, un puzzle psicologico insoluto che simboleggia le difficoltà di espressione proprie della moderna società, prigionera delle proprie masturbazioni mentali; l'uomo a testa in giù non riesce a venir fuori dai propri stessi 'loop' verbali e comunicativi e sembra dirci che senza libertà interiore e coerenza nei rapporti umani non si va da nessuna parte.
Affrettatevi a visitare la mostra, ne vale la pena.
Il Giardino di Arte Libera, Solaris Island (138, 38, 1701)
Pinovit Pinion
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